lunedì 8 dicembre 2008

I love Derry

Capita raramente che io rilegga dei libri. Sono fermamente convinta che ci sia un tempo per ogni lettura, uno ed uno soltanto. Come sono convinta del fatto che siano i libri a venire a cercare noi e non viceversa. Per esempio, la primavera scorsa ho letto Il rosso e il nero e so che non lo riaprirò mai più. Julien Sorel rimarrà un amico e me lo ricorderò per sempre, me lo ricorderò anche quando sarò molto vecchia e dei miei amici di ora forse mi sarò dimenticata e magari molti di loro avranno dimenticato me e la memoria non ci sarà più e quello che è stato il giorno prima sarà come se non fosse mai esistito e non ci sarà un passato più o meno lontano, ma regnerà l'esistenza onirica della vecchiaia molto avanzata, detta anche rincoglionimento. Però Julien rimarrà sempre con me, solo magari mi chiederò dov'è che l'avevo incontrato quel simpatico ragazzo? E mi illuderò di averlo conosciuto all'università, dove in realtà non ho conosciuto proprio nessuno che gli somigliasse nemmeno vagamente. E così varrà per molti altri amici che sono rimasti con me ogni sera prima di dormire senza mai infastidirmi, come amanti ideali. Tuttavia c'è un libro che rileggo, credo, ogni dicembre, ed è It di Stephen King. La sua mole spaventerebbe anche Vincenzo Monti. Inoltre non si può prorpiamente definire una lettura colta (sebbene io sostenga che King sia uno scrittore fenomenale e sicuramente la maggior parte dei miei compagni di corso storcerebbe il naso perchè a Benjamin non sarebbe piaciuto) . C'è però un motivo per cui lo rileggo, nonostante tutto, nonostante le sue mille pagine, nonostante sia un best seller, nonostante ne abbiano tratto un film imbarazzante. Questo motivo è il terrore puro che mi scatena pagina dopo pagina. Una sola lettura mi ha fatto paura quanto It, ed è Il signore delle mosche di Golding, che pure ho riletto e riletto e ogni volta mi ha fatto sempre meno effetto fino a quando ho smesso di sfogliarlo. Ora sta tra Il piccolo principe e un libro di Severgnini, la punizione più dura che potessi infliggergli. It, tutti conoscono la storia. Banalmente un pagliaccio assassino che alla fine è un ragno di merda che non spaventa nessuno (mi si perdoni lo spoiler) compare a Derry, una cittadina del Maine, ciclicamente, ogni ventisette anni e fa stragi di innocenti. Il clown Pennywise, caratterizzato da una parrucchetta arancio Santoro quando aveva deciso di tingersi, uccide i ragazzini e trascina le loro anime nelle fogne e infatti questi ogni tanto richiamano ragazzini ancora vivi e dicono ehi vuoi un palloncino? Galleggiano e It salta fuori e gnam, se li mangia. Confesso che da ragazzina mi terrorizzava. Quando l'ho letto per la prima volta, a quattordici anni, avevo talmente paura che quando lo richiudevo lo nascondevo nell'armadio di mia madre che, da adulta, sarebbe stata senz'altro immune. Crescendo questo libro non ha mai smesso di farmi paura. Crescendo ho capito che quello che voleva significare, cosa fosse quell'It, quella cosa, era tutt'altro che un clown mangiabambini. It è Derry stessa, il marciume delle città di provincia, è la noia, è la frustrazione che deriva dal vivere ai margini tra le feste di paese e le commemorazioni annuali (ogni luogo ha le sue, loro avevano una specie di festival del Canale, noi abbiamo quelle patetiche feste dell'unità dove ancora a tavola si dicono compagno passami il pane; quelle della lega non le nomino nemmeno), è un po' la morte insomma, per chi non sa andarsene. Se è come l'ho capita io, se il terrore che mi dà deriva da un sentire corretto, bè allora King è stato un vero genio. Perchè ora che cresco me ne rendo conto, mi rendo conto di quanto il mondo sia in genere piuttosto inospitale, ma di quanto la provincia sia, anzi, pericolosa. Una specie di crosta che ti rimane addosso e tu gratti gratti e non se ne va mai nemmeno quando te ne vai tu. Sempre quella crosta ti rimane attaccata e quando riesci a levarla del tutto sotto ti rimane bianco e lì non si abbronza nemmeno mai. E così capisco come la vera mostruosità sia non cambiare mai niente e crepare dove si è nati credendo, tutto sommato, di vivere un'esistenza soddisfacente. Questo discorso credo valga anche per chi nasca e cresca in una metropoli. Ad un certo punto ci si accorge che c'è sempre qualcuno più cittadino di noi e che purtroppo trasferirsi non basta mai. Bisogna andare e tornare e non stare mai fermi, scavalcare i tombini senza guardarci dentro, allontanarsi fino a dove ci si può spingere e imparare a convivere con noi stessi, che alla fine siamo sempre i mostri peggiori. A presto

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